In questo articolo approfondiremo i quattro requisiti richiesti affinché un residuo di produzione possa essere considerato come un sottoprodotto e quindi escluso dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti, anche alla luce delle recenti modifiche introdotte dal D.lgs. 116/2020, in attuazione della Direttiva (UE) 2018/851.
Si è già trattato in questo blog il tema dei sottoprodotti, disciplinati dall’art. 184-bis del D.lgs. 152/2006. Tuttavia questa volta più nel dettaglio spiegando i requisiti specifici individuati dalla normativa.
Ai sensi dell’art. 184-bis, comma 1 del D.lgs. 152/06, le condizioni che devono essere cumulativamente soddisfatte per qualificare come sottoprodotto un residuo di produzione sono le seguenti:
La prima condizione prevede che il residuo derivi da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante ma non lo scopo primario. Deve, quindi, ritenersi esclusa l’origine di un sottoprodotto dalla mera attività di consumo.
Secondo la giurisprudenza prevalente, il sottoprodotto deve, infatti, trarre origine da un'attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un bene, che viene ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali.
Ad esempio, nella recente sentenza n. 25316 del 7 giugno 2019, la Cassazione ha affermato che i materiali di demolizione non possono essere ricondotti alla categoria dei sottoprodotti perché essi non scaturiscono da un processo di produzione, bensì dalla demolizione di un edificio, ossia da un’attività antitetica alla produzione.
Resta inteso, peraltro, che “la qualifica di sottoprodotto non potrà mai essere acquisita in un tempo successivo alla generazione del residuo, non potendo un materiale inizialmente qualificato come rifiuto poi divenire sottoprodotto”. Questo è quanto afferma il Ministero dell’Ambiente nella Circolare esplicativa per l’applicazione del Decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264 del 30 maggio 2017.
In virtù di tale principio, dalle attività di gestione rifiuti (impianti di trattamento) non potranno mai decadere dei sottoprodotti.
Quanto al secondo requisito, la giurisprudenza più recente è ormai costante nell’affermare che, ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali, incombe sull'interessato “l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo”.
L’ulteriore impiego può avvenire nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore medesimo o di terzi.
Come chiarito dal Legislatore, la dimostrazione della certezza può essere apportata tramite l’esistenza di contratti tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi, i quali indichino che il materiale oggetto del contratto sarà riutilizzato e con che modalità.
Il suddetto D.M. 264/2016 dichiara inoltre che il contratto di utilizzo del residuo sia utile a livello probatorio qualora specifichi anche le caratteristiche tecniche dei prodotti, le condizioni di utilità e vantaggiosità della cessione.
Il terzo requisito prevede che il residuo possa essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla “normale pratica industriale”.
Intendendo con tale espressione il complesso delle “ordinarie” operazioni o fasi produttive che, secondo una prassi consolidata nel settore specifico di riferimento, caratterizza un dato ciclo di produzione di beni e che possono mutare da sottoprodotto a sottoprodotto a prescindere dalle variazioni sulla originaria natura.
L’ultima condizione prevede che l’ulteriore utilizzo del residuo sia legale, ossia che non provochi effetti nocivi sulla salute umana e sull’ambiente e che rispetti tutti i requisiti riguardanti i prodotti analoghi.
Sulla base delle anzidette condizioni, il Ministero dell’Ambiente (ora denominato Ministero della transizione ecologica) può adottare ulteriori misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti (art. 184-bis, comma 2).
A prosecuzione di tale previsione, il recente D.lgs. 116/2020 ha aggiunto che queste future misure dovranno garantire “un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana agevolando, altresì, l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali dando priorità alle pratiche replicabili di simbiosi industriale”.
Nel lessico economico-gestionale, la simbiosi industriale viene definita come una strategia di ottimizzazione che coinvolge più imprese appartenenti al medesimo distretto, basata sullo scambio continuo di risorse, quali: energia, spazi, competenze, materie prime ecc.
Attraverso la simbiosi industriale, i sottoprodotti vengono ceduti per essere utilizzati da un’altra azienda, in genere operante in un settore produttivo diverso da quello d’origine, generando reciproci benefici ambientali ed economici. Si pensi alla riduzione dei costi per l’acquisto di materie prime, energia e smaltimento rifiuti.
Accanto a tali indubbie opportunità, occorre prestare massima attenzione anche ai rischi penali conseguenti all’errata qualificazione di un materiale come sottoprodotto.
La gestione di un sottoprodotto, che venga invece qualificato dalla Pubblica Autorità come rifiuto, espone il produttore del medesimo alle sanzioni di cui all’art. 256 del D.lgs. 152/06 (per chiunque effettui attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione).
Peraltro, la gestione non autorizzata di rifiuti è tra le fattispecie inserite nell’elenco dei reati presupposto di cui all’art. 25-undecies del D.lgs. 231/2001.
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